Scuola: pitbull e res publica

Scuola: pitbull e res publica

di Mario Maviglia

Ha suscitato un certo scalpore la notizia riportata da un quotidiano e riguardante una dirigente scolastica di un istituto superiore del milanese che da circa un anno porta con sé a scuola il suo cane, un pitbull di una certa stazza.

Al di là della specifica vicenda, su cui decideranno le autorità preposte, qui si vuole fare un discorso complessivo su cosa vuol dire “abitare” spazi pubblici e quali differenze vi sono rispetto agli spazi privati. Partiamo dal presupposto che il passaggio pressoché quotidiano da casa (spazio privato) a scuola (spazio pubblico), segna anche la differenza tra un certo modo di stare in un contesto e in un altro. Infatti (è quasi banale dirlo, ma evidentemente non è così scontato), tra i due contesti vi sono regole, forme comunicative, modi di relazionarsi, forme di comportamento posture del tutto diverse. Queste differenze sono acquisite dagli stessi bambini fin da quando cominciano a frequentare la scuola dell’infanzia, in quanto cominciano a cogliere la differenza sociale e psicologica tra i due contesti di vista: a scuola si possono fare cose che a casa sono vietate e viceversa (a scuola ci si può impiastricciare, mentre a casa di solito ciò non è possibile; a casa c’è qualcuno che si dedica quasi esclusivamente a lui/lei, mentre a scuola questo qualcuno/qualcuna – si dedica anche a tanti altri bambini eec.).

Queste differenze sono note, ovviamente, anche agli adulti, anche se nel tempo sono andate annacquandosi, nel senso che sempre più spesso si creano invasioni di campo dell’uno o dell’altro spazio. Da qui ne discende che spesso gli alunni (ma anche gli adulti) stiano a scuola come se fossero a casa loro, nel modo di comunicare, nell’abbigliamento, nelle forme relazionali usate verso gli altri. È pur vero che vi è da parte della scuola il lodevole tentativo di rendere gli ambienti scolastici viepiù confortevoli ed inclusivi per favorire la piena partecipazione di tutti i suoi protagonisti alla vita della scuola stessa e per mettere in atto le migliori condizioni per favorire, incoraggiare a sostenere i processi di apprendimento. Insomma, il fatto che la scuola cerchi di farsi percepire come uno spazio “familiare” e non estraneo, non è di per sé disdicevole. Anzi! Quello che talvolta sfugge è che la scuola rimane pur sempre uno spazio pubblico e sociale, all’interno del quale le modalità di fruizione e le forme dello “stare dentro” tale spazio, sono diverse da quelle del contesto famigliare o di altri spazi informali.

Nella vicenda riportata dalla stampa questo canone risulta violato o sovvertito in quanto il portare il proprio cane a scuola non rientra nelle ordinarie consuetudini della vita scolastica. Peraltro, sarebbe interessante verificare cosa direbbe o farebbe la dirigente scolastica in questione se tutti i docenti della scuola (o buona parte di essi), prendendo esempio proprio dal comportamento della dirigente, dovessero (o volessero) portare a scuola il proprio cane. Probabilmente (e a ragione) opporrebbe il proprio rifiuto in quanto ciò non risponde né a una necessità didattica (di per sé il cane non fa parte della “cassetta degli attrezzi” di bruneriana memoria…)[1], né tanto meno a una esigenza “vestemica”[2] (di solito, il docente non si abbiglia con il cane…). Ma anche in riferimento al dirigente scolastico non sono rinvenibili esigenze professionali o di leadership che giustifichino la presenza del cane a scuola.

Più in generale, possiamo avanzare un’altra ragione, di carattere storico-culturale, del difficile rapporto che esiste in Italia tra spazio privato e spazio pubblico, analizzando la concezione che gli italiani hanno della res publica, la “cosa pubblica”. In un’accezione civica per cosa pubblica si intende un bene che appartiene alla collettività e come tale va preservato e rispettato da parte di ognuno in modo da consentire di poterne fruire senza danneggiarlo affinché anche gli altri possano usarlo a loro volta. Ma perché questo avvenga è necessario che vi sia una qualche forma di alleanza tra i singoli e la collettività. In Italia, “il singolo non si sente parte di una collettività che lo ingloba e lo potenzia nel momento stesso in cui gli impone delle restrizioni, ma si sente sciolto dal nesso di cittadinanza, libero di fare quel che vuole, estraneo ad ogni forma di obbligo collettivo. Per questo da noi è nato un concetto di bene pubblico fortemente anarchico e dissipativo.”[3] In Italia, quindi, “l’accezione di pubblico che prevale [è quello di] una cosa pubblica [che] può essere usata da tutti senza limiti e può finanche non sopravvivere a questo impiego e rimanere distrutta nell’uso.”[4] A differenza di quanto avviene in altri Paesi, in Italia il bene pubblico è un’entità che trascende il mondo dell’esperienza individuale e dunque “è esposto al rischio permanente di ricevere danni da tutti, quindi è (in senso letterale) comunemente danneggiabile. Capita spesso infatti, quando si richiama qualcuno al rispetto della proprietà pubblica, di sentirsi rispondere: «Non è tuo, è di tutti, quindi ne faccio quel che voglio!»[5] Una concezione “civica” invece del bene (e dello spazio) pubblico, come praticata in altri Paesi, lo considera come qualcosa “da fruirsi e proteggersi in comune, anche per poterlo usare ancora in futuro, e insieme da tenersi rigorosamente distinto dal privato.”[6]

Non devono stupire queste annotazioni se, come sottolinea S. Patriarca, “l’idea che gli italiani hanno di se stessi non è affatto lusinghiera: di qualsiasi gruppo sociale facciano parte, si descrivono come un popolo di cinici, di individualisti estremi incuranti del bene pubblico, di opportunisti propensi al clientelismo, falsi se non totalmente bugiardi.”[7]

La vicenda riportata in apertura è in qualche modo emblematica di questo modo di concepire lo spazio pubblico (“ne faccio quel che voglio”), con l’aggravante, in questo caso, che viene espresso (attraverso il comportamento) da chi è chiamato a svolgere una funzione di autorità dentro il contesto scolastico, e dunque dovrebbe proporsi come modello di riferimento per tutta la cosiddetta “comunità educante”. Soprattutto il dirigente, infatti, dovrebbe avere piena consapevolezza che, proprio perché la scuola si caratterizza come uno spazio pubblico formalizzato, la comunicazione e la relazione al proprio interno e verso l’esterno assumono forme più o meno dense di formalità (formule di cortesie, abbigliamento, linguaggio standard non gergale, ma anche procedure standardizzate, formule di rito nella comunicazione scritta ecc.). La formalità indica che si è all’interno di una dimensione non privata, dove i rapporti sono caratterizzati da ruoli, competenze, posizioni diverse, spesso codificati, e dove il codice prevalente non è quello affettivo, ma normativo, del canone. Percepire la scuola come “propria”, vuol dire prendersene cura in tutti i suoi vari aspetti affinché possa esplicare al meglio le sue finalità istituzionali, ma guai a sentirla come un prolungamento della propria abitazione, con pitbull annesso.


[1] Cfr. J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Milano 2004

[2] I. Poggi, E. Magno Caldognetto, Mani che parlano: gesti e psicologia della comunicazione, Unipress, Padova, 1997; M. Maviglia, L. Bertocchi, L’insegnante e la sua maschera. Teatralità e comunicazione nell’insegnamento, Mondadori, Milano, 2021

[3] R. Simone, Il Paese del pressappoco, Garzanti, Milano, 2005, p. 192 (Corsivo nel testo)

[4] Ivi, p. 191 (Corsivo nel testo)

[5] Ivi, p. 193 (Corsivo nel testo)

[6] Ibidem (Corsivo nel testo)

[7] S. Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Editori Laterza, Bari-Roma, 2010, p. XI